Il Simbolo di un' E-mozione

(riflessioni a partire da La via dei simboli, di Antonino Saggio)

 

L'architettura si sta liberando, sta rompendo un tabù che l'ha costretta per lungo tempo a rappresentare e a dar forma solamente a ciò che fosse strettamente necessario o strettamente giustificabile da esigenze di carattere funzionalistico o geometrico-stilistico-meccanico. Assistiamo ora alla liberazione della forma, che va ad assumere un valore simbolico, metaforico, emozionale, per lungo tempo dimenticato. Le grandi architetture civiche, ma anche piccoli interventi strategici, assumono il valore di attrattori, space-warp, deformatori socio-urbani.

E' curioso notare come i progetti dei nuovi CAADesigners siano plasmati da modificatori e campi di forze, e come a loro volta essi stessi finiscano per assumere la funzione di deformatori sulla realtà che contaminano.

Pensiamo a opere come il Guggenheim a Bilbao di Gehry, in cui il progetto è plasmato dai flussi della città, ma che poi, una volta inserito, va a plasmare a sua volta questi ultimi. Gli oggetti architettonici diventano gizmo, campi di forza e di energia, che creano modificazioni, vortici, gorghi all'interno dei meccanismi del tessuto esistente. Se strategicamente corretti questi interventi simbolico-metaforici possono agire come campi magnetici, possono attivare meccanismi economici e flussi umani di grande interesse sociologico e, the last but not the least, economico-finanziario. Attorno ad opere come il Guggenheim si concentra l'attenzione della gente e ruotano flussi di persone allo stesso modo in cui le cattedrali o i castelli o le piazze civiche del medioevo fungevano da perni, da poli di attrazione, da attivatori di meccanismi molteplici.

E soprattutto riescono a fornire alla città, alla popolazione di un luogo, agli abitanti di un quartiere, un feticcio, un totem attorno al quale plasmare la propria identità di cittadini, di appartenenti ad una comunità specifica, locale, particolare, ma al tempo stesso connessa al villaggio globale grazie alla visibilità che lo stesso totem ha agli occhi dell'opinione pubblica internazionale.

- Ehi ciao! Di dove sei?
- Vengo da Bilbao, non so se la conosci, è una città che...
- Ehi, aspetta, la città con quel museo tutto curvo di metallo? Certo che la conosco!

L'opera architettonica funge da catalizzatore, di attività e di visibilità. E in quest'epoca in cui è fondamentale essere attivi, produttivi, ma soprattutto riconoscibili, visibili in real-time, quale catalizzatore può esistere più potente di un'opera architettonica spettacolare, strepitante, profondamente simbolica per il luogo in cui sorge, e per di più strategicamente azzeccata? E' la gioia del politico, del manager, dell'imprenditore, dell'utente, del cittadino, e del bambino, che ha qualcosa finalmente per cui meravigliarsi mentre si reca a scuola la mattina.

Bilbao, dopo (e anche durante) la costruzione del Guggenheim, è diventata all'improvviso famosissima, tra gli architetti, tra gli studenti, tra la gente che vedeva le foto di quella luccicante macchina sinuosa. E' diventata la meta imprescindibile per uno studente di architettura, per un critico, per un sociologo, per un artista, per un mass-mediologo, per un turista attratto dalle forme curiose dell'architettura.

E' diventata una nuova Mecca della contemporaneità, almeno una volta nella vita un architetto sente il dovere di fare un pellegrinaggio nella capitale basca... e anch'io l'ho fatto, nel 1999, volevo vedere assolutamente questo fantomatico Guggenheim, e sono partito, da solo, infervorato... Mi ricordo che, mentre camminavo attorno, dentro e sopra il mostro, mi sentivo in colpa, in conflitto, diviso tra le mie emozioni di esaltazione e i miei ragionamenti da studente di architettura "ortodosso". Ma come era possibile, nelle curve sinuose, nell'impennare dei volumi, nell'arricciarsi della pelle di titanio di quel mostro fluviale non vedevo nulla di giustificato, mi sembrava tutto gratuito, nulla sembrava essere dettato da ragionamenti di tipo funzionale o dalle norme della "corretta" progettazione che stavo apprendendo nei vari laboratori. Mi vergognavo quasi dell'essere stato attratto da un'opera che, secondo un mio professore di allora, era orrenda, "perchè l'architettura è fatta di particolari, di studi minuziosi su ogni singolo bullone per raggiungere la poesia nel dettaglio...blabla", mentre Gehry se ne infischia totalmente di tutto ciò, semplicemente crea una struttura mesh-reticolare uniforme e la ricopre... quasi un'installazione dell'Euro-Disney parigino.

Non ve lo immaginate in mente vostra, questo mostro, come un grande magnete che attira a sè, o per lo meno influenza e devia, flussi di idee, di persone, di denaro, un gorgo multimediale e dal duplice risvolto globale/locale?

Ma come ci riesce? Come può un'architettura avere tutto questo potere? Metterei per un attimo da parte cose ovvie, come la correttezza delle analisi a monte del progetto, la assoluta efficacia della strategia, la grande capacità del team di progettisti. E allora ripeto la domanda e provo a dare una risposta diversa, e forse più profonda. Ma come diavolo ci riesce? Ma è palese! Grazie all'EMOZIONE!!! E' grazie all'emozione che un'opera d'architettura come questa riesce a far breccia nel cuore del visitatore e a guadagnarsi la sua attenzione e il suo interesse. Ed è grazie all'emozione che lo spettatore si dà all'opera, le si concede, come un innamorato...